Lungo il Cammino del Nord
Racconto la mia esperienza sulle strade che portano a Santiago de Compostela
RITORNO
Cari lettori. L’attività di cui siete testimoni leggendo le mie newsletter rappresenta per me una passione enorme. Tuttavia non è sempre semplice incastrare una o più attività ricreative con il mio lavoro che, seppur talvolta molto stancante e impegnativo, mi permette di portare a casa ciò che mi serve per vivere con serenità. In quest’ultimo periodo ho perso costanza, ma allo stesso tempo ho sciolto uno dei nodi più cruciali della mia vita: lasciare andare. Un po’ come ci insegna l’Arcano numero XX, la Ruota di Fortuna, tutto è ciclico. Non c’è nulla che possa restare invariato.
Ci sono persone, eventi, abitudini, passioni che entrano costantemente nella mia vita, ma non necessariamente per dimorarvi per sempre. Talvolta anche per lasciare un profumo, un aroma che potrò riassaporare da qui all’eternità. Lasciare andare è difficile, sempre, ma come qualsiasi attività della vita, è suscettibile al perfezionamento, con opportuna pratica e dedizione.
La scrittura rappresenta per me una forma d’arte. Ogni parola, ogni sillaba e ogni struttura sintattica sono come spennellate di colore su di una tela bianca, prostrata dinanzi l’artista, nell’attesa di essere riempita. Non importa se si tratta di un articolo sull’ultimo Gran Premio di Formula 1, un aforisma o un poema epico. Un testo scritto bene ti colpisce dolcemente. Te ne innamori, pur non sapendo perché.
Allontanarmi da Substack per due mesi è stato molto spiacevole, anche perché nella stessa maniera in cui in ho smesso di scrivere, ho smesso anche di leggere gli articoli degli amici substackers ai quali ho sottoscritto un abbonamento. Scrivere resta tuttavia un’attività faticosa. Richiede molte energie e per di più il fatto di non essere un professionista aggiunge un tocco di inerzia che di certo non aiuta. Manco di tecnica, talvolta sono troppo prolisso e faccio ancora molti errori. Ciò nonostante non demordo e vado avanti. E infatti, eccomi qui.
EL CAMINO
Inauguro questa sorta di “ritorno sul palcoscenico” raccontandovi l’esperienza di quest’estate sul cammino di Santiago. Sarà una breve cronaca di viaggio, sulla linea dell’articolo scritto lo scorso inverno in cui raccontavo il viaggio in Cambogia insieme a mio fratello. Ora bando ai convenevoli. Cominciamo.
Il cammino di Santiago di Compostela è una rete di itinerari che si dividono tra Francia, Portogallo e Spagna - quest’ultimo è il paese dove, in termini di chilometraggio, sono abbondantemente più presenti - e che vedono come destinazione finale l’omonima città galiziana. Per coloro che vogliono raggiungere l’oceano, c’è anche la possibilità di allungare il percorso fino alla località di Finisterre, nella Galizia occidentale. Coloro che decidono di intraprendere questa avventura vengono chiamati “pellegrini” per via della storia del Santo Giacomo a cui la città è dedicata. Per chi volesse avere maggiori informazioni, consiglio caldamente di consultare il sito www.camminosantiagodecompostela.it, all’interno del quale si possono trovare dettagli utili, consigli e testimonianze.
Il simbolo del cammino è la conchiglia gialla, detta anche “vieira”, in galiziano, oppure petxina de pelegri, in catalano. La si trova su tutto il percorso e di solito accompagna le frecce gialle che guidano il pellegrino attraverso le varie tappe del pellegrinaggio.
Molti pellegrini indubbiamente si inoltrano nel cammino per motivi di culto, ma negli ultimi decenni le cose sono cambiate radicalmente e la connotazione religiosa è andata via via perdendosi. Tuttavia, è rimasta quella sfumatura di carattere spirituale che spinge un individuo verso qualcosa che nella maggior parte dei casi non è in grado di comprendere, esattamente come il motivo per cui ho deciso di cominciare a scrivere articoli di filosofia in questo spazio web. Ne ho sentito la necessità, ma non ne comprendo la genesi.
Sicuramente chi decide di fare il Cammino sente una sollecitazione. Una scintilla che si accende apparentemente senza un motivo e sulla quale non può fare a meno di porre la propria attenzione. E cos’è la vita se non un vero e proprio cammino dove non sai quello che puoi trovare? Ogni passo è inedito, così come ogni mattone è sconosciuto. E tanto, tantissimo dolore.
L’idea di fare il Cammino non è stata mia. Come in molte occasioni nel corso della vita, sono stato praticamente trascinato e nella fattispecie, dalla mia amata compagna. A me piace usare l’espressione “spintaneamente” per sottolineare il fatto di aver fatto una scelta senza volerlo veramente. Io adoro camminare, mi piacciono i boschi, le montagne, l’aria aperta, tuttavia non è un’attività che sono solito intraprendere quotidianamente. Motivo per cui ho sofferto molto. Credo sia impossibile trasmutare in parole il dolore che ho provato, tra vesciche ai piedi e problemi osteo-articolari. Per quasi tutto il percorso sono stato di pessimo umore, il peggior compagno di viaggio che si possa immaginare.
Valicavo paesaggi meravigliosi, tra scogliere prorompenti che tagliavano il mare a fette e dolci colline che sinuose mi indicavano la destinazione alla quale ero prossimo arrivare. Eppure non vedevo nulla, ero accecato dalla rabbia e il mio unico desiderio era quello di fermarmi e tornare indietro. Fino a quando qualcosa è cambiato.
EUSKADI
L’itinerario prescelto è quello così detto “del Nord”. La città designata come tappa di partenza è Irun e si trova esattamente al confine nord-orientale tra Spagna e Francia. La regione su cui si estende tutta la prima porzione del cammino viene chiamata Euskadi, corrispondente basco dei “Paesi Baschi”. Si tratta di una regione che in realtà va oltre il confine spagnolo e ricopre per qualche chilometro la regione costiera sud-occidentale della Francia. È una terra difficile, dove scorre molta rabbia e molto risentimento, soprattutto nei confronti dei vicini spagnoli.
La cosa che mi ha colpito sin da subito è stata l’enorme quantità di bandiere palestinesi esposte sulle finestre delle case. I baschi, infatti, condividono quel sentimento che consiste nella necessità di emanciparsi da uno stato che viene ritenuto “invasore” o ancor peggio “nemico”.
Non conoscevo la storia di Euskadi. Ero impreparato da tutti i punti di vista. Mi dispiaceva. A poco a poco cominciai a creare un legame silente con quelle terre, con quella gente. Sentivo la loro rabbia e l’avevo fatta mia. Ero profondamente attratto da quella lingua, così strana e lontana da qualsiasi idioma avessi mai incontrato prima. Una lingua misteriosa, dura, consonantica, che rappresenta pienamente la personalità dei baschi. Talvolta freddi e ostili, altre volte gentili ed accoglienti. C’era un dolore che traspariva dai campi e accarezzava le curve schiene dei contadini, ma che veniva esorcizzato nella splendida aria di festa che aleggiava in grandi città come San Sebastián - Donostia in lingua basca - o Bilbao.
Da quando sono tornato non riesco a togliermi dalla testa l’inno dei txuri-urdin, ovvero la squadra di calcio della Real Sociedad (la traduzione è “bianco-azzurri” con riferimento ai colori sociali della squadra). Mi sono talmente appassionato che ne sono diventato fan e dall’inizio del campionato spagnolo non mi sono perso neanche una partita.
Bilbao è una città bellissima, con uno stretto sbocco al mare e circondata da verdi montagne. La si raggiunge scalando un piccolo monte chiamato “Avril” per poi scendere sempre più giù fino ad raggiungere il centro città. Anche qui, come a San Sebastián, si respira un profondo e costante amore per il calcio. Ovunque troviamo bandiere e stendardi della squadra basca Athletic Club della quale detengo fieramente una bellissima maglietta. Per la prima volta decidiamo di effettuare uno strappo alla regola: prendere un treno che ci porta fino a Portugalete, l’ultimo avamposto basco prima di sconfinare nell’adiacente Cantabria. Non ci accorgiamo nemmeno di aver passato il confine di regione, in quanto le strade che percorriamo sono state dimenticate persino dal creatore. Ce ne rendiamo conto solo al primo contatto con la civiltà. Non ci sono più le diciture in basco, i graffiti sui muri inneggianti all’indipendenza dalla Spagna o ancora gli aneliti alla liberazione della Palestina. Siamo approdati nella Spagna vera ed Euskadi è ormai alle spalle. Ci avviamo in direzione Santander, la capitale della Cantabria.
Tra momenti estremamente difficili, malumori e invidia verso tutti quei pellegrini che sembravano macinare chilometri senza accusare il minimo disagio fisico, decidiamo di superare Santander per raggiungere altre due tappe. Non mi soffermo sulla bellezza di alcuni borghi come Santillana de Mar, Comillas o Castro Urdiales. A prescindere che possiate o vogliate fare il cammino di Santiago, sono località che vale la pena vedere almeno una volta nella vita. Raggiungiamo inaspettatamente persino l’ultima tappa cantabrica, ovvero San Vicente de la Barquera, essendo i miei piedi ormai ridotti ad un colabrodo e avendo avuto in programma di fermarci almeno due tappe prima.
IL MATTO VIANDANTE
Dopo trecento trenta chilometri sulle gambe e tredici giorni alle spalle, ci apprestiamo a tornare indietro ed è proprio in questo istante che dentro di me scocca qualcosa. Quei momenti di rabbia e desolazione che mi avevano accompagnato lungo tutto il percorso lasciavano spazio ad un senso di appagamento. La curva bifasica aveva cominciato a vertere verso il basso, aprendo le porte a quella che nel gergo delle cinque leggi biologiche viene definita “fase vagotonica”. Una soddisfazione che prende i connotati della malinconia e del disagio al pensiero di dover tornare a casa. Come se avessi cominciato ad assaporare la magia del viaggio solo dopo averlo concluso.
Mi domando come sarebbe potuto essere il sapore di questa esperienza se solo fossi riuscito ad assaggiare anche solo parzialmente, ma senza alcun filtro, ogni passo effettuato lungo il cammino. Le sensazioni che avrei provato ad ogni sorso di un buon bicchiere di vino Txakoli. Con che occhi avrei guardato la mia compagna se solo non mi fossi lasciato sopraffare da tutti quei pensieri auto-sabotanti. Ho macinato chilometri su chilometri con i piedi a pezzi. Sono arrivato a destinazione, seppur soffrendo. Cosa posso volere di più da me stesso?
Oggi, a distanza di quasi due mesi dal ritorno, alimento sempre più il desiderio di continuare laddove ho lasciato. Fare altre tappe, conoscere posti nuovi e incontrare gli amici pellegrini e condividere con loro una stanza o un pasto caldo. È incredibile come spesso sia possibile compromettere un’esperienza e respirarne l’essenza solo a posteriori.
L’archetipo del Matto, l’Arcano Senza Numero, insegna che il viaggio va vissuto al 100%. Ci insegna che bisogna amare l’imprevisto, la pioggia, persino il dolore fisico. Tutto è parte integrante dell’esperienza. Ciò che accadrà domani è imprevedibile. Il Matto si muove d’istinto, senza preoccupazione alcuna. Ogni pensiero è un ostacolo ed è proprio per questo che molti pellegrini viaggiano da soli. Non è facile entrare nell’Arcano Senza Nome, lasciare andare ogni limitazione auto imposta, non avere paura di ciò che potrà accadere lungo il percorso, incedere con la certezza che il viaggio ti metterà sempre a disposizione ciò di cui hai bisogno. Un Matto, soprattutto, lascia andare il superfluo e ciò che non serve più. Un matto viaggia leggero, con il minimo indispensabile. Per il resto, ci pensa il cammino.
Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre “Andiamo”, e non sanno perché. I loro desideri hanno le forme delle nuvole.
(Charles Baudelaire)